La mobilità fisica delle persone in Italia ha un forte impatto sull’ambiente. Nel 2005 vi erano quasi 35 milioni di autovetture, pari a circa 60 mezzi ogni 100 abitanti (media europea 50%). A queste bisogna aggiungere circa 8 milioni di veicoli per il trasporto merci e almeno 7 milioni di ciclomotori (Ambiente Italia 2007, p. 230).
Il numero di chilometri percorsi dal singolo abitante con un mezzo motorizzato è di molto superiore alla media europea (circa 15.000 km a testa), mentre è leggermente inferiore l’intensità d’uso della singola vettura (ciò denota un utilizzo non ottimale del parco auto). Dal canto suo il trasporto con mezzi collettivi (impropriamente detto “pubblico”) non supera il 16% di tutti i viaggi delle persone. Il trasporto delle merci su strada è stato nel 2005 pari a 188.768 milioni di tonnellate per km. Esso rappresenta il 75% di tutta la movimentazione di merci. Gli altri due vettori arrivano al 15% (trasporto marittimo) e al 10% (ferrovia).
In tutto i milioni di tonnellate movimentati arrivano a 250.000, una cifra sostanzialmente uguale a quella del 2000. Un grosso incremento si era avuto nell’ultimo decennio del ‘900. Ora, non è ben chiaro se vi sarà una ripresa del tasso di crescita oppure si manterranno gli attuali volumi (Rapporto ISSI 2007, p. 209). Sappiamo però che trasporto di merci su navi e su treni è rimasto sostanzialmente stabile, mentre è in crescita quello per via aerea.
Quest’ultimo mezzo sta crescendo anche per il trasporto di persone. In Italia le emissioni di CO2 (più altri gas simili=equivalenti) dei trasporti fatto 100 il livello nel 1990 sono arrivate a 128 nel 2004. In tale anno il settore dei trasporti era responsabile del 23% delle emissioni di CO2 equivalente, un livello secondo solo a quello della produzione di energia. Invece, in termini di tendenza esso è il primo fra i settori produttivi; è cioè quello che è cresciuto di più.
Con questi dati è difficile aspettarsi una “dematerializzazione” (ottenere lo stesso risultato con minore apporto di energia e materia) del settore. Non si riuscirà a trasportare lo stesso numero di persone e le stesse quantità di merci con un minor uso di risorse e minori emissioni.
E’ lecito attendersi quindi una crescita in termini assoluti e relativi dell’impatto dei trasporti sull’ambiente. Nelle aree periferiche, intendendo con queste le zone di montagna, le aree a bassa densità abitativa e quelle non toccate da importanti assi di comunicazione, i trasporti sono un problema in più. Sono infatti poco servite dai mezzi pubblici, costringendo ad un maggiore uso dell’auto privata; sono lontane dai servizi e dai luoghi di lavoro, costringendo a lunghi e faticosi trasferimenti; hanno una densità di popolazione così bassa da rendere poco economici e praticabili servizi di trasporto autogestiti (ad esempio il car pooling o più banalmente un servizio di taxi).
La contingenza storica è sfavorevole alle aree periferiche per varie ragioni: i servizi pubblici – in particolare quelli dei trasporti – sono in gravi difficoltà economiche e cercano di tagliare le corse meno frequentate. La privatizzazione poi non aiuta in questo senso. Decenni di emigrazione hanno reso tali aree abitate prevalentemente da anziani, le cui possibilità di possedere e guidare un mezzo privato tendono inevitabilmente a ridursi.
Allo stesso tempo, le poche chance di sviluppo o di tenuta delle economie periferiche sembra riposta in una maggiore integrazione delle persone e dei prodotti con le aree forti; da ciò deriva la necessità di incrementare i trasporti. Più turisti da portare in zona, più residenti locali che possano pendolare, più merci da far girare da un luogo di produzione ad un altro alla ricerca dei ‘vantaggi comparati’.
Il problema dei trasporti raggiunge elevati picchi di visibilità negli ingorghi urbani e nelle code in autostrada. Ma esiste un problema più generale e meno visibile che riguarda la mobilità delle aree periferiche. Proprio in forza di quanto sostenuto in precedenza (crescita dell’integrazione fra sistemi), i problemi delle aree periferiche si ripercuotono sulle aree centrali. Molti residenti nelle lontane periferie finiscono per intasare gli imbocchi delle città e i raccordi autostradali oppure devono rinunciare alla mobilità, riducendo così le proprie opportunità di accesso ai servizi e alle professioni. Insomma, il problema degli spostamenti nelle aree fragili è meno visibile ma genera riflessi negativi su tutto il sistema.
La cartina del nord Italia sopra riportata mostra che il pendolarismo ‘forte’ è diffuso maggiormente nelle aree metropolitane, come era lecito attendersi, in molte aree montane di confine e in qualche area di pianura. Dunque, zone rurali, generalmente a industrializzazione e urbanizzazione diffusa (il lavoro sotto casa), possono avere gravi problemi di spostamento. Anche i distretti industriali, spesso localizzati fuori dei centri urbani, hanno una buona integrazione produttiva ma un traffico veicolare spaventosamente caotico. Vale la pena quindi affrontare il tema mobilità per una volta guardandolo dal punto di vista delle aree non urbane.
Con tale prospettiva forse potranno emergere analisi innovative e soluzioni inedite. A volte un cambio di prospettiva permette di trovare espedienti semplici a problemi molto gravi.
Chissà che casi delle aree periferiche non possano illuminare ingarbugliate situazioni presenti nelle metropoli o in aree industriali particolarmente intasate. Per altro, il problema della mobilità nelle aree periferiche è tutt’altro che semplice perché implica almeno tre piani di intervento: il piano della tutela dei diritti: ogni cittadino ha diritto di fruire di un servizio minimo di trasporto collettivo, il piano delle politiche: serve una redistribuzione dei costi del trasporto fra aree; non è possibile infatti stabilire tariffe solo a partire dal costo della singola corsa, il piano della cultura: è urgente ridimensionare il mito dell’auto privata – pur utilissima nelle aree periferiche – e sondare strumenti cooperativi e partecipativi.
Anche le soluzioni si pongono su più piani; possiamo immaginare tre linee di azione per la mobilità nelle aree periferiche: far muovere meno le persone portando servizi e lavoro più vicino a casa e collegandole con servizi telematici (strategia della riduzione). farle muovere di più con mezzi collettivi creando dei servizi di trasporto a chiamata o auto-organizzati che sviluppino economie di scala (strategia dell’innovazione di processo o logistica) farle muovere con mezzi privati più adatti alle specificità dei luoghi sostenendo la ricerca di auto-mezzi più efficienti, più flessibili, meno costosi, più robusti ….. (strategia dell’innovazione di prodotto).
Servono dunque soluzioni pratiche, da approntare con una precisa valutazione dei costi, dei mezzi tecnici a disposizione, delle formule gestionali più opportune. Sarebbe però riduttivo pensare che le soluzioni vengano solo da ricette ingegneristiche. Non sembri retorico a questo punto il richiamo alla partecipazione. Pensare che i residenti nelle aree periferiche siano solo utenti o clienti dei servizi di trasporto, è illusorio. Una certa condivisione del servizio è indispensabile; serve anche un minimo di solidarietà da parte di coloro che vivono in aree dove i trasporti collettivi hanno numeri tali da renderli più convenienti. Su tutta la questione pesa la questione ambientale. Sarebbe piuttosto facile pensare ad una massiccia integrazione delle aree periferiche grazie ad un forte sviluppo delle attuali modalità di trasporto.
Ma ciò appare insostenibile per le ragioni addotte inizialmente. Dobbiamo pensare di alleggerire i trasporti, anche nelle aree periferiche; dobbiamo, allo stesso tempo, renderli più accessibili alle fasce deboli e dobbiamo, infine, ridurre una quota della mobilità fisica attraverso collegamenti virtuali o servizi in loco. Una bella sfida che il convegno vuole raccogliere seguendo un’impostazione già collaudata (economia leggera e energia locale): una lettura del fenomeno e dei problemi, in una prima parte, la presentazione di casi virtuosi, nella seconda.
La questione energetica è sempre stata appannaggio di politiche nazionali e grandi imprese. La forma che sta prendendo negli ultimi anni sotto la spinta di diversi cambiamenti – esaurimento risorse fossili, esigenza di indipendenza, liberalizzazione dei mercati – dà nuovo spazio ad attori locali siano essi le istituzioni pubbliche, le piccole imprese, gli organismi nonprofit. Si ci può chiedere se il ‘piccolo’ possa giocare un ruolo nella produzione e distribuzione dell’energia. La risposta passa attraverso una ridefinizione del ruolo di molti enti: sono in gioco le competenze ai vari livelli dell’amministrazione pubblica; le ex-municipalizzate potrebbero trovare nuovi sbocchi operativi; vi sono combinazioni tecnico-finanziarie nuove che potrebbero rendere alcune imprese competitive e altre destinate al fallimento; vi sono infine imprese sociali e movimenti di base alla ricerca di strumenti pratici con i quali realizzare le proprie profezie. In questo scenario si assiste alla proliferazione di progetti di sviluppo di fonti energetiche; ciò richiede una valutazione da diversi punti di vista: – sostenibilità ambientale – distribuzione sociale e territoriale dei costi e dei benefici – capacità delle istituzioni e dei gruppi locali di essere protagonisti. Le aree rurali e/o periferiche sono massicciamente investite da questi progetti (eolico, biomasse, impianti di produzione, dislivello acqua), ma potrebbero non avere le risorse intellettuali e politiche per valutare appieno la portata degli stessi. Banca Etica, i coordinamenti locali e in genere i gruppi impegnati sulle energie alternative sono interessati a capire l’evoluzione di questi progetti sia per sostenere i più promettenti e consoni ai propri ideali sia per frenare abusi sociali o nuove minacce all’ambiente. Per queste ragioni è stato pensato un convegno di studio.
Il convegno mira a realizzare i seguenti obiettivi: – fare una mappa delle iniziative locali di valorizzazione energetica, con particolare attenzione al livello microterritoriale – portare conoscenze utili sulle strategie adottate da movimenti, imprese e istituzioni sulla questione energetica, con particolare attenzione alle reti locali.
Metodo Si pensa di sfruttare le modalità di coinvolgimento e organizzative del convegno di Rovigo del febbraio 2006 Un’economia leggera per aree fragili, con cui questa iniziativa si pone in continuità, ossia: – contattare i coordinamenti locali di Banca Etica per verificare la presenza di progetti di valorizzazione energetica situati in aree periferiche dei propri territori. Anche referenti locali di altre organizzazioni saranno contattati per avere informazioni – assistere dal punto di vista scientifico quei coordinamenti e quei referenti che segnalano progetti interessanti, verificarne la portata ed eventualmente proporli come esperienze da presentare al convegno. – ordinare la casistica secondo criteri ispirati alla distrettualizzazione dell’energia ossia presenza di attori locali pubblici, privati e noprofit, produzione-distribuzione in loco (filiere corte), integrazione fra fonti con particolare riguardo a quelle rinnovabili, dimensioni medio-piccole degli impianti, inserimento in piani energetici locali.
Nelle macro-aree a sviluppo diffuso persistono situazioni di relativa marginalità. È il caso del nord Italia che a dispetto di livelli di benessere molto elevati, paragonabili a quelli delle grandi economie europee, presenta zone problematiche. Queste sono ‘oscurate’ sia dalla maggiore visibilità del dualismo fra nord e sud del paese sia dal fatto che sono piuttosto piccole e remote.
Il calo demografico, pur avendo alcuni margini di ambiguità interpretativa (es. per i centri delle metropoli), è un indicatore abbastanza fedele di un generale malessere di alcune aree. Significa infatti alta incidenza della popolazione anziana, difficoltà a mantenere certi servizi di base, debolezza dei flussi immigratori e quindi delle capacità di attrazione. Non sempre si accompagna ad alta disoccupazione perché le aree demograficamente deboli hanno anche una bassa percentuale di persone attive giovani. Si accompagna invece quasi sempre a redditi pro capite più bassi.
Un malinteso senso ecologico potrebbe far pensare che finalmente alcune aree raggiungono un migliore equilibrio fra risorse e popolazione, lasciando più spazio alla natura e agli animali selvatici. Ciò purtroppo si rivela in larga misura falso. Lo sfruttamento esasperato delle risorse naturali avviene anche in assenza di popolazione residente; anzi per certi aspetti aree poco presidiate sono maggiormente in balia di minacce ecologiche come le discariche abusive, i fenomeni di bracconaggio, i prelievi di materiali dagli alvei dei fiumi, per non parlare del dissesto idrogeologico.
Le aree a forte declino demografico del nord Italia sono individuabili in diversi punti: le zone più ampie comprendono una stretta fascia che corre sul crinale dell’Appennino emiliano-romagnolo per manifestarsi con massima gravità all’incrocio fra le province di Piacenza, Pavia, Alessandria e Genova. Abbiamo poi parte della montagna cuneese e torinese, comuni periferici delle valli Ossola e Sesia, comuni che dividono la Valtellina dalle valli bergamasche e bresciane; infine si riscontra una vasta area che comprende l’alta Carnia, parte della provincia di Belluno e di Pordenone. Al di fuori della montagna, le situazioni si fanno più sfumate. Comunque, l’area più vasta comprende i comuni rivieraschi del Po a valle delle città di Rovigo e Ferrara. Quasi tutta l’asta del Po manifesta un relativo calo demografico, fino ad arrivare alle aree collinari del Piemonte centrale e meridionale.
Le ragioni della marginalità territoriale sono antiche e recenti allo stesso tempo. È lecito credere che i fattori siano sempre più di uno, annoverando sia i vincoli fisico-strutturali, la posizione rispetto ai poli di sviluppo, la debole tradizione industriale, la frammentazione istituzionale e progettuale. Quale che sia la miscela di fattori causativi, bisogna chiedersi quali destini tocchino a queste aree, dopo che si è esaurita la spinta alla delocalizzazione di scala nazionale e regionale. Ora, infatti, le imprese delle aree forti preferiscono decentrare nei paesi dell’est europeo o asiatico. La globalizzazione ha riattivato la competizione fra grandi città, che devono concentrare le proprie risorse in poderosi progetti di sviluppo interni (fiere, passanti, reti telematiche…). La stessa cosa pare avvenga per i distretti industriali, chiamati più che a espandersi nei rispettivi retroterra a razionalizzare i propri specifici vantaggi competitivi (creatività, design, marketing, coordinamento…). Risulta quindi improbabile pensare a benefici derivanti da trasferimenti e redistribuzioni delle aree forti.
Per le aree periferiche si è insistito molto sul turismo rurale, una miscela di salubrità dei prodotti, accoglienza familiare, recupero delle tradizioni locali. Gli sforzi delle amministrazioni pubbliche, dei parchi naturali e dei gruppi spontanei hanno sortito progetti di buona fattura, capaci di far vedere quanto ricca e bella sia l’Italia dei piccoli centri. Tali sforzi però hanno un impatto occupazionale limitato e non tengono conto dell’emergenza servizi; sono rivolti cioè soprattutto a qualificare piccole nicchie dell’economia locale. Non che siano inutili, ma piuttosto insufficienti rispetto al gravoso compito di mantenere la popolazione in loco. Famiglie giovani con figli necessitano di redditi regolari e di servizi adeguati; in caso contrario non resta che il trasferimento nelle città o nei fondovalle. Il pendolarismo spinto degli anni passati risulta poi insostenibile per gli elevati costi economici e fisici che comporta.
A fronte di questa situazione ci si può chiedere quale economia sia possibile nelle aree periferiche del nord Italia e se questa possa essere sostenibile. Anni di studio sullo sviluppo locale ci hanno insegnato che non esiste una ricetta universale e che i percorsi sono vari e a volte imprevedibili. Tuttavia, due vincoli appaiono imprescindibili: uno, bisogna mantenere insediamenti con una popolazione sufficientemente numerosa ed equilibrata per fasce di età; due, bisogna battere strade che assicurino la sostenibilità ambientale delle attività economiche siano essi dei locali o di imprese esterne. In queste due condizioni trova senso il titolo del convegno: “un’economia leggera per aree fragili”.
Un’economia leggera si riferisce a varie cose: oltre alla sostenibilità ambientale, il pensiero va ai fattori immateriali dello sviluppo come la conoscenza e il capitale umano. I diversi tipi di conoscenza e le motivazioni ad agire sono variabili cruciali nei processi di sviluppo locale. Dal canto suo, il capitale sociale è probabilmente diradato e in crisi, dato che le aree periferiche lamentano un forte sbilanciamento verso le classi di età anziane e una crescente segregazione delle residenze permanenti. Presenze temporanee di turisti ed ex-residenti devono essere collocate nella giusta luce: si tratta di persone che hanno costruito la propria famiglia e professione altrove; raramente sono disposte a impiantarsi stabilmente in queste aree. Eppure sono una risorsa da tenere in considerazione. In questo senso anche gli immigrati da altri paesi possono essere un prezioso fattore di rivitalizzazione.
Su questi temi la riflessione può avviarsi nel seguente modo:
-c’è bisogno di capire meglio i contorni della marginalità territoriale nel nord-Italia (dimensioni, consistenza, variabilità delle forme)
-bisogna disegnare degli scenari di sviluppo per queste aree, tenendo conto del doppio vincolo sopra espresso: popolazione minima vitale e sostenibilità delle imprese
-si tratta, inoltre, di raccogliere esperienze esemplari, casi di intraprendenza locale che abbiano coinvolto giovani, famiglie e istituzioni ossia quelle entità che manifestano i maggiori segni di crisi.
casi di sviluppo locale sostenibile provenienti dalle aree deboli del nord Italia
modera: Alessandro Arrighetti, Università di Parma
– Autosufficienza energetica: una meta irraggiungibile? – il bilancio energetico del mandamento di Copparo (Ferrara);
Giorgio Polesinanti, Raffaele Jacoel, Francesco Silvestri
– Un circuito solidale dell’economia rurale – la coop. Valli Unite nelle valli Curone e Borbera (Appennino alessandrino),
Ottavio Rube, Giovanni Carrosio
– Filiera corta, rete larga – Natural Valley: un caso di produzione agricolo-alimentare nella collina e montagna piacentina,
Alberto Borghi
– Qualità della vita in aree marginali – il piano dei servizi intercomunali promosso dalla Provincia di Cremona,
Agostino Alloni, Marcello Magoni
– Biblioteche e cultura in rete – la partnership tra Comunità montana di Valle Camonica e il consorzio di cooperative sociali Sol.Co. Camunia (Brescia),
Guido Mensi
– Turismo diffuso, impatto limitato – il caso dell’albergo diffuso nei piccoli comuni della Carnia (Udine),
Claudio Cescutti, Marialuisa Cimiotti
ore 17.00
Conclusioni: progetti, servizi e investimenti per le aree fragili
ore 17.30
Referenti
Dario Brollo, Segretario Area Nord Est di Banca Etica (brollo.fondazione@bancaetica.org)
Alberto Hoch, Segretario Area Nord Ovest di Banca Etica (hoch.fondazione@bancaetica.org)
Giorgio Osti, coordinatore soci di Banca Etica della provincia di Rovigo (giorgio.osti1@tin.it)
Sede del convegno: Sala Consiliare della Provincia di Rovigo, via Ricchieri, 10
Rovigo si presta bene a rappresentare un’area posta alla periferia di zone molto dinamiche come l’Emilia e il Veneto centrale. Nonostante ciò ha una posizione geografica baricentrica, ben collegata alle linee ferroviarie e stradali.