Da diversi anni abbiamo intrapreso un’opera di ricerca sulle aree fragili del nostro paese con l’intento di individuare le loro traiettorie e, possibilmente, volgerle in positivo grazie agli strumenti della finanza etica. Quando parliamo di aree fragili pensiamo a tre situazioni: le zone particolarmente esposte a rischi ambientali siano essi di origine naturale (esondazione di un fiume) o artificiale (incidente in un impianto chimico); aree fragili sono anche quelle che a causa della bassa densità abitativa ed economica stanno perdendo i propri servizi e le persone più giovani; infine vi sono le classiche periferie urbane prive di servizi o i centri storici degradati. Le prime sono lontane dal cuore pulsante delle città, i secondi fin troppo vicini.
In tutte le situazioni, risulta evidente che non si tratta solo di carenze di servizi secondo uno standard base; non si tratta solo di concentrazione di residenti con redditi e patrimoni più bassi. Vi è un importante fattore sociale che riguarda la qualità del vivere collettivo. La gloriosa Scuola di Chicago quando analizzava i quartieri delle città parlava di disorganizzazione, intendendo con ciò l’assenza di un “ordine morale” fra gli abitanti. Ordine morale suona ormai come un termine datato, ma il senso di fondo rimane: siamo o meno di fronte ad un quartiere che manifesta una certa socialità, che sa organizzarsi per particolari eventi, che è capace anche di mobilitarsi per chiedere il rispetto dei propri diritti? Nel grado di organizzazione vi è quindi sia una solidarietà locale sia anche una dimensione politica intesa come rivendicazione di servizi funzionanti, spazi comuni, abitazioni decenti. Sapersi organizzare significa catturare fondi, farsi conoscere all’esterno, portare nel quartiere o nel paese iniziative originali.
Abitare ingloba le dimensioni principali del vivere: quella privata degli affetti e del relax, quella lavorativa, seppur indirettamente (spostamenti casa-lavoro) e quella appunto della socialità come sopra specificato: vivere accanto ad altri in maniera significativa con gesti reciproci di cura e con adeguati spazi pubblici, nei quali manifestare le proprie esigenze. Questa situazione si potrebbe chiamare anche comunità, se non fosse che questo termine evoca (ingiustamente) significati negativi, come il controllo sociale, la maldicenza, la mortificazione della soggettività individuale. Quale che sia il nome che vogliamo dare all’abitare, esso va ben al di là del risiedere, dello stare fisicamente alcune ore della giornata in condizioni di prossimità.
Vediamo allora cosa minaccia l’abitare:
-condizioni ambientali rischiose, considerando anche le opere umane
-la lontananza dei posti di lavoro che impone lunghi spostamenti o l’accettazione di lavori in loco precari
-una carente dotazione di servizi di base, includendo in questi anche i luoghi della socialità
-un debole spirito comunitario, un senso di estraneità fra abitanti, le prevaricazioni di minoranze criminali
Riguardo al primo punto abbiamo alcuni dati che permettono di fare una mappatura impressionante dell’Italia: si veda la carta del rischio sismico, di quello idrogeologico e dei siti industriali pericolosi. Si può aggiungere la mappa delle città vivibili redatta annualmente da Legambiente. Riguardo al disagio derivante dagli spostamenti per lavoro abbiamo raccolto molte informazioni nel convegno dello scorso anno sulla mobilità leggera in aree fragili. Sappiamo che in testa ai tempi di percorrenza vi sono i residenti nelle aree metropolitane e un’esigua minoranza di abitanti delle aree remote. I primi sono tanti ma godono anche di maggiori servizi di trasporto, i secondi sono molto pochi anche rispetto alla popolazione dei propri paesi, ma compiono lunghi tragitti per recarsi al lavoro. Fra le minoranze ad alta mobilità, bisogna includere sicuramente molti migranti.
Riguardo alla dotazione di servizi abbiamo dati riferiti a singole aree, alle periferie delle grandi città, a tutta l’Italia. Raramente abbiamo dati con un livello di disaggregazione territoriale tale da cogliere se esista una discriminazione verso le aree minori. Ad esempio, la ricerca di Legambiente sul disagio abitativo nei piccoli comuni mette in evidenza tre tipi di disagio: quello economico-occupazionale di gran parte delle aree interne del sud; quello in larga misura demografico (pop. anziana) e culturale (istruzione bassa) delle aree montane e collinari del centro-nord e quello che assomma i caratteri negativi delle prime due aree, anche se con valori meno estremi e che riguarda alcune aree di pianura del nord (già a suo tempo localizzate nelle nostre ricerche, Osti 2004-05) e piccoli gruppi di comuni distribuiti a macchia di leopardo in tutta Italia (figura in alto).
Proprio questo ultimo tipo di disagio insediativo merita alcuni commenti. Intanto è da sottolineare la sua presenza sia in pianura che in montagna, sia al nord che al sud. E’ probabile che la sua diffusione così dispersa lungo tutto lo stivale impedisca di coglierne la reale fisionomia, non facilmente riconducibile ai soliti clichè basati sulla disoccupazione (sud) e sull’invecchiamento (nord). Un nodo cruciale di questo terzo tipo è proprio il fatto che si assommano disagi economici, carenze nei servizi e destrutturazione demografica.
A scanso di equivoci è bene precisare che l’insieme dei casi considerati nella citata ricerca in disagio insediativo è composto da “2.830 comuni – pari al 35% del totale – con una superficie di 100 mila Kmq., corrispondente al 33,4% della superficie nazionale, nella quale risiede soltanto l’8,7% della popolazione” (Legambiente-Confcommercio, 2000, p. 6). Se guardiamo però alla distribuzione territoriale per regione torna il classico dualismo nord-sud. Infatti, I comuni con i tre tipi di disagio abitativo raccolgono solo l’1,3% della popolazione del Veneto e il 42% della popolazione della Calabria. La regione del nord Italia con la più ampia quota di popolazione in condizioni residenziali difficili è il Piemonte con il 5,5%. Poco più sotto la Liguria (5,2%). I curatori della ricerca insistono sul fatto che si tratta di indici ‘tarati’ per misurare il disagio delle aree rurali e non delle periferie urbane.
Comunque sia, una simile distribuzione del disagio crea un problema per le politiche di sviluppo: dobbiamo tralasciare queste situazioni geografiche per concentrarci sulle grandi aree urbane dove il malessere si manifesta in forme più forti e riguarda fasce ben più ampie di popolazione? Dobbiamo pensare soprattutto al sud Italia dove si assommano problemi antichi e nuovi e dove il malessere sembra più difficile da combattere? Oppure dobbiamo pur sempre considerare che un tipico disagio da aree minori, rurali, montane, a bassa densità, presenta dei tratti specifici in tutto il territorio nazionale e come tale va trattato?
La linea di ricerca sin qui tracciata ci spinge verso la terza ipotesi. Esiste un tipo particolare di marginalità rurale che riguarda una minoranza (alcuni milioni di persone secondo l’indagine) della popolazione italiana, che rischia di essere trascurata nelle politiche per il fatto che a) è poco conosciuta, b) le politiche di sviluppo locale puntano tutto sulla promozione delle attività economiche tralasciando gli aspetti più spiccatamente residenziali. Una buona esemplificazione viene dalle ricerche epidemiologiche. Giuseppe Costa (2008) mostra che la vita media è leggermente più lunga in città rispetto alla campagna-montagna piemontese. E ciò pare in parte da attribuirsi alla diversa dotazione di servizi sanitari, che induce una diversa propensione a monitorare il proprio stato di salute. Egli precisa anche che le differenze fra classi sociali sono maggiori di quelle fra aree territoriali, come a dire che a Torino si vive leggermente più a lungo che nelle valli, ma dentro la città le differenze fra gruppi sociali sono maggiori. Ritorna dunque il dilemma precedente: nelle aree urbane il disagio sociale si manifesta in maniera più acuta. Tuttavia, esiste anche un problema ‘rurale’, nelle pur ricche regioni del nord Italia.
Sebbene sia più difficile avere informazioni sistematiche sugli aspetti relazionali, possiamo immaginare che vi sia una crisi della socialità nelle aree a bassa densità abitativa che si manifesta come una vera e propria solitudine o bowling alone come richiama il libro di un noto studioso di questi fenomeni (Robert Putnam). Le aree degradate delle periferie urbane possono avere tanti problemi ma non certo quello della rarefazione della popolazione. Evidentemente si può essere soli anche in mezzo alla folla (David Riesman, 1950), ma per ragioni diverse da quelle pensabili in zone rurali semidisabitate. Per altro, sono diverse anche le prospettive: mentre nelle aree urbane vi possono essere rapidi cambiamenti dovuti a processi di gentrification (riqualificazioni con nuovi abitanti più ricchi) o alla sostituzione di popolazione (vedasi il fenomeno migratorio), nelle aree rurali marginali i processi sono più lenti e sembrano ancora inclinati verso un ulteriore spopolamento. In quelle aree anche l’arrivo di nuovi immigrati avviene più lentamente (e rischia di creare nuovi ghetti rurali!).
Insomma, esiste una peculiarità delle aree fragili a bassa densità abitativa che richiede un occhio attento, una indagine specifica, una considerazione nuova che possa approdare ad una conoscenza più sistematica di quanto accade. Un banco di prova cruciale sembrano essere i servizi sia quelli commerciali che quelli sociali. Indagare su questi può far capire molte cose e forse anche individuare qualche risposta positiva.
Vi è infatti una parte propositiva della ricerca: evidenziare esperienze nelle quali si è cercato di dare risposte positive alla marginalità territoriale; esse possono essere catalogate secondo i seguenti criteri:
– originalità – durata – ampiezza del coinvolgimento – elementi di sussidiarietà
Su questi due aspetti – disagio abitativo delle aree rurali e risposte innovative al problema – si può imbastire il programma del convegno 2009.
Riferimenti bibliografici sul tema dell’abitare in contesti periferici
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D. Biolghini, “Aree fragili” e progetti di Distretto di Economia Solidale, Rete Leader. Rivista dello sviluppo rurale, n. 14, 2008, pp. 10-13.
G. Costa, Geografia della salute in contesti urbani, in G. Nuvolati e M. Tognetti Bordogna (a cura di), Salute, ambiente e qualità della vita nel contesto urbano, Angeli, Milano, 2008, pp. 97-150.
TestiF. Di Iacovo (a cura di), Lo sviluppo sociale nelle aree rurali, Angeli, Milano 2003.
S. Landini, Commercio e comuni in Piemonte. Una classificazione dei comuni per tipologia di dotazione di strutture commerciali, Ires Piemonte, Torino, 2008, Contributi di ricerca, n. 219.
S. Lucatelli, S. Savastano, M. Coccia, Servizi socio-sanitari nell’Umbria rurale, Ministero dell’Economia e delle Finanze, Dipartimento per le Politiche di Sviluppo, Unità di Valutazione degli Investimenti Pubblici, Materiali UVAL, Numero 12 – Anno 2006
M. Nova, M.L. Dagnino, Il ruolo del commercio nelle aree rurali svantaggiate, paper presentato al convegno “Il sistema rurale”, Milano, 13-14 ottobre 2004
G. Osti, Un’economia leggera per aree fragili. Numero monografico della rivista “Sviluppo Locale”, vol. XI, n. 27, 2004-05.
A. Rottini, Cambio casa cambio vita. Dal cohousing all’autocostruzione, dalle comunità di famiglie alle cooperative edilizie: come cambiare casa (o costruirla) e vivere meglio, Terre di Mezzo, Milano, 2008
C. Salvioni, Ricchez za e povertà nelle campagne, Agriregionieuropa, Anno 1, n. 1, 2005
A. Zaniboni, I territori riabitati. Un percorso dalla Padania alla Sicilia, Angeli, Milano 2009.
l disagio abitativo degli immigrati nell’Italia meridionale
www.piccolicomunionline.net, Formez
Carta dell’abitanza sociorurale, in Studi Zancan, n. 6, 2007
Piccol aGrandeItalia, Legambiente
Comuni polvere. Polvere di Comunità, Communitas, 3/4, 2005
La mobilità fisica delle persone in Italia ha un forte impatto sull’ambiente. Nel 2005 vi erano quasi 35 milioni di autovetture, pari a circa 60 mezzi ogni 100 abitanti (media europea 50%). A queste bisogna aggiungere circa 8 milioni di veicoli per il trasporto merci e almeno 7 milioni di ciclomotori (Ambiente Italia 2007, p. 230).
Il numero di chilometri percorsi dal singolo abitante con un mezzo motorizzato è di molto superiore alla media europea (circa 15.000 km a testa), mentre è leggermente inferiore l’intensità d’uso della singola vettura (ciò denota un utilizzo non ottimale del parco auto). Dal canto suo il trasporto con mezzi collettivi (impropriamente detto “pubblico”) non supera il 16% di tutti i viaggi delle persone. Il trasporto delle merci su strada è stato nel 2005 pari a 188.768 milioni di tonnellate per km. Esso rappresenta il 75% di tutta la movimentazione di merci. Gli altri due vettori arrivano al 15% (trasporto marittimo) e al 10% (ferrovia).
In tutto i milioni di tonnellate movimentati arrivano a 250.000, una cifra sostanzialmente uguale a quella del 2000. Un grosso incremento si era avuto nell’ultimo decennio del ‘900. Ora, non è ben chiaro se vi sarà una ripresa del tasso di crescita oppure si manterranno gli attuali volumi (Rapporto ISSI 2007, p. 209). Sappiamo però che trasporto di merci su navi e su treni è rimasto sostanzialmente stabile, mentre è in crescita quello per via aerea.
Quest’ultimo mezzo sta crescendo anche per il trasporto di persone. In Italia le emissioni di CO2 (più altri gas simili=equivalenti) dei trasporti fatto 100 il livello nel 1990 sono arrivate a 128 nel 2004. In tale anno il settore dei trasporti era responsabile del 23% delle emissioni di CO2 equivalente, un livello secondo solo a quello della produzione di energia. Invece, in termini di tendenza esso è il primo fra i settori produttivi; è cioè quello che è cresciuto di più.
Con questi dati è difficile aspettarsi una “dematerializzazione” (ottenere lo stesso risultato con minore apporto di energia e materia) del settore. Non si riuscirà a trasportare lo stesso numero di persone e le stesse quantità di merci con un minor uso di risorse e minori emissioni.
E’ lecito attendersi quindi una crescita in termini assoluti e relativi dell’impatto dei trasporti sull’ambiente. Nelle aree periferiche, intendendo con queste le zone di montagna, le aree a bassa densità abitativa e quelle non toccate da importanti assi di comunicazione, i trasporti sono un problema in più. Sono infatti poco servite dai mezzi pubblici, costringendo ad un maggiore uso dell’auto privata; sono lontane dai servizi e dai luoghi di lavoro, costringendo a lunghi e faticosi trasferimenti; hanno una densità di popolazione così bassa da rendere poco economici e praticabili servizi di trasporto autogestiti (ad esempio il car pooling o più banalmente un servizio di taxi).
La contingenza storica è sfavorevole alle aree periferiche per varie ragioni: i servizi pubblici – in particolare quelli dei trasporti – sono in gravi difficoltà economiche e cercano di tagliare le corse meno frequentate. La privatizzazione poi non aiuta in questo senso. Decenni di emigrazione hanno reso tali aree abitate prevalentemente da anziani, le cui possibilità di possedere e guidare un mezzo privato tendono inevitabilmente a ridursi.
Allo stesso tempo, le poche chance di sviluppo o di tenuta delle economie periferiche sembra riposta in una maggiore integrazione delle persone e dei prodotti con le aree forti; da ciò deriva la necessità di incrementare i trasporti. Più turisti da portare in zona, più residenti locali che possano pendolare, più merci da far girare da un luogo di produzione ad un altro alla ricerca dei ‘vantaggi comparati’.
Il problema dei trasporti raggiunge elevati picchi di visibilità negli ingorghi urbani e nelle code in autostrada. Ma esiste un problema più generale e meno visibile che riguarda la mobilità delle aree periferiche. Proprio in forza di quanto sostenuto in precedenza (crescita dell’integrazione fra sistemi), i problemi delle aree periferiche si ripercuotono sulle aree centrali. Molti residenti nelle lontane periferie finiscono per intasare gli imbocchi delle città e i raccordi autostradali oppure devono rinunciare alla mobilità, riducendo così le proprie opportunità di accesso ai servizi e alle professioni. Insomma, il problema degli spostamenti nelle aree fragili è meno visibile ma genera riflessi negativi su tutto il sistema.
La cartina del nord Italia sopra riportata mostra che il pendolarismo ‘forte’ è diffuso maggiormente nelle aree metropolitane, come era lecito attendersi, in molte aree montane di confine e in qualche area di pianura. Dunque, zone rurali, generalmente a industrializzazione e urbanizzazione diffusa (il lavoro sotto casa), possono avere gravi problemi di spostamento. Anche i distretti industriali, spesso localizzati fuori dei centri urbani, hanno una buona integrazione produttiva ma un traffico veicolare spaventosamente caotico. Vale la pena quindi affrontare il tema mobilità per una volta guardandolo dal punto di vista delle aree non urbane.
Con tale prospettiva forse potranno emergere analisi innovative e soluzioni inedite. A volte un cambio di prospettiva permette di trovare espedienti semplici a problemi molto gravi.
Chissà che casi delle aree periferiche non possano illuminare ingarbugliate situazioni presenti nelle metropoli o in aree industriali particolarmente intasate. Per altro, il problema della mobilità nelle aree periferiche è tutt’altro che semplice perché implica almeno tre piani di intervento: il piano della tutela dei diritti: ogni cittadino ha diritto di fruire di un servizio minimo di trasporto collettivo, il piano delle politiche: serve una redistribuzione dei costi del trasporto fra aree; non è possibile infatti stabilire tariffe solo a partire dal costo della singola corsa, il piano della cultura: è urgente ridimensionare il mito dell’auto privata – pur utilissima nelle aree periferiche – e sondare strumenti cooperativi e partecipativi.
Anche le soluzioni si pongono su più piani; possiamo immaginare tre linee di azione per la mobilità nelle aree periferiche: far muovere meno le persone portando servizi e lavoro più vicino a casa e collegandole con servizi telematici (strategia della riduzione). farle muovere di più con mezzi collettivi creando dei servizi di trasporto a chiamata o auto-organizzati che sviluppino economie di scala (strategia dell’innovazione di processo o logistica) farle muovere con mezzi privati più adatti alle specificità dei luoghi sostenendo la ricerca di auto-mezzi più efficienti, più flessibili, meno costosi, più robusti ….. (strategia dell’innovazione di prodotto).
Servono dunque soluzioni pratiche, da approntare con una precisa valutazione dei costi, dei mezzi tecnici a disposizione, delle formule gestionali più opportune. Sarebbe però riduttivo pensare che le soluzioni vengano solo da ricette ingegneristiche. Non sembri retorico a questo punto il richiamo alla partecipazione. Pensare che i residenti nelle aree periferiche siano solo utenti o clienti dei servizi di trasporto, è illusorio. Una certa condivisione del servizio è indispensabile; serve anche un minimo di solidarietà da parte di coloro che vivono in aree dove i trasporti collettivi hanno numeri tali da renderli più convenienti. Su tutta la questione pesa la questione ambientale. Sarebbe piuttosto facile pensare ad una massiccia integrazione delle aree periferiche grazie ad un forte sviluppo delle attuali modalità di trasporto.
Ma ciò appare insostenibile per le ragioni addotte inizialmente. Dobbiamo pensare di alleggerire i trasporti, anche nelle aree periferiche; dobbiamo, allo stesso tempo, renderli più accessibili alle fasce deboli e dobbiamo, infine, ridurre una quota della mobilità fisica attraverso collegamenti virtuali o servizi in loco. Una bella sfida che il convegno vuole raccogliere seguendo un’impostazione già collaudata (economia leggera e energia locale): una lettura del fenomeno e dei problemi, in una prima parte, la presentazione di casi virtuosi, nella seconda.
La questione energetica è sempre stata appannaggio di politiche nazionali e grandi imprese. La forma che sta prendendo negli ultimi anni sotto la spinta di diversi cambiamenti – esaurimento risorse fossili, esigenza di indipendenza, liberalizzazione dei mercati – dà nuovo spazio ad attori locali siano essi le istituzioni pubbliche, le piccole imprese, gli organismi nonprofit. Si ci può chiedere se il ‘piccolo’ possa giocare un ruolo nella produzione e distribuzione dell’energia. La risposta passa attraverso una ridefinizione del ruolo di molti enti: sono in gioco le competenze ai vari livelli dell’amministrazione pubblica; le ex-municipalizzate potrebbero trovare nuovi sbocchi operativi; vi sono combinazioni tecnico-finanziarie nuove che potrebbero rendere alcune imprese competitive e altre destinate al fallimento; vi sono infine imprese sociali e movimenti di base alla ricerca di strumenti pratici con i quali realizzare le proprie profezie. In questo scenario si assiste alla proliferazione di progetti di sviluppo di fonti energetiche; ciò richiede una valutazione da diversi punti di vista: – sostenibilità ambientale – distribuzione sociale e territoriale dei costi e dei benefici – capacità delle istituzioni e dei gruppi locali di essere protagonisti. Le aree rurali e/o periferiche sono massicciamente investite da questi progetti (eolico, biomasse, impianti di produzione, dislivello acqua), ma potrebbero non avere le risorse intellettuali e politiche per valutare appieno la portata degli stessi. Banca Etica, i coordinamenti locali e in genere i gruppi impegnati sulle energie alternative sono interessati a capire l’evoluzione di questi progetti sia per sostenere i più promettenti e consoni ai propri ideali sia per frenare abusi sociali o nuove minacce all’ambiente. Per queste ragioni è stato pensato un convegno di studio.
Il convegno mira a realizzare i seguenti obiettivi: – fare una mappa delle iniziative locali di valorizzazione energetica, con particolare attenzione al livello microterritoriale – portare conoscenze utili sulle strategie adottate da movimenti, imprese e istituzioni sulla questione energetica, con particolare attenzione alle reti locali.
Metodo Si pensa di sfruttare le modalità di coinvolgimento e organizzative del convegno di Rovigo del febbraio 2006 Un’economia leggera per aree fragili, con cui questa iniziativa si pone in continuità, ossia: – contattare i coordinamenti locali di Banca Etica per verificare la presenza di progetti di valorizzazione energetica situati in aree periferiche dei propri territori. Anche referenti locali di altre organizzazioni saranno contattati per avere informazioni – assistere dal punto di vista scientifico quei coordinamenti e quei referenti che segnalano progetti interessanti, verificarne la portata ed eventualmente proporli come esperienze da presentare al convegno. – ordinare la casistica secondo criteri ispirati alla distrettualizzazione dell’energia ossia presenza di attori locali pubblici, privati e noprofit, produzione-distribuzione in loco (filiere corte), integrazione fra fonti con particolare riguardo a quelle rinnovabili, dimensioni medio-piccole degli impianti, inserimento in piani energetici locali.
Nelle macro-aree a sviluppo diffuso persistono situazioni di relativa marginalità. È il caso del nord Italia che a dispetto di livelli di benessere molto elevati, paragonabili a quelli delle grandi economie europee, presenta zone problematiche. Queste sono ‘oscurate’ sia dalla maggiore visibilità del dualismo fra nord e sud del paese sia dal fatto che sono piuttosto piccole e remote.
Il calo demografico, pur avendo alcuni margini di ambiguità interpretativa (es. per i centri delle metropoli), è un indicatore abbastanza fedele di un generale malessere di alcune aree. Significa infatti alta incidenza della popolazione anziana, difficoltà a mantenere certi servizi di base, debolezza dei flussi immigratori e quindi delle capacità di attrazione. Non sempre si accompagna ad alta disoccupazione perché le aree demograficamente deboli hanno anche una bassa percentuale di persone attive giovani. Si accompagna invece quasi sempre a redditi pro capite più bassi.
Un malinteso senso ecologico potrebbe far pensare che finalmente alcune aree raggiungono un migliore equilibrio fra risorse e popolazione, lasciando più spazio alla natura e agli animali selvatici. Ciò purtroppo si rivela in larga misura falso. Lo sfruttamento esasperato delle risorse naturali avviene anche in assenza di popolazione residente; anzi per certi aspetti aree poco presidiate sono maggiormente in balia di minacce ecologiche come le discariche abusive, i fenomeni di bracconaggio, i prelievi di materiali dagli alvei dei fiumi, per non parlare del dissesto idrogeologico.
Le aree a forte declino demografico del nord Italia sono individuabili in diversi punti: le zone più ampie comprendono una stretta fascia che corre sul crinale dell’Appennino emiliano-romagnolo per manifestarsi con massima gravità all’incrocio fra le province di Piacenza, Pavia, Alessandria e Genova. Abbiamo poi parte della montagna cuneese e torinese, comuni periferici delle valli Ossola e Sesia, comuni che dividono la Valtellina dalle valli bergamasche e bresciane; infine si riscontra una vasta area che comprende l’alta Carnia, parte della provincia di Belluno e di Pordenone. Al di fuori della montagna, le situazioni si fanno più sfumate. Comunque, l’area più vasta comprende i comuni rivieraschi del Po a valle delle città di Rovigo e Ferrara. Quasi tutta l’asta del Po manifesta un relativo calo demografico, fino ad arrivare alle aree collinari del Piemonte centrale e meridionale.
Le ragioni della marginalità territoriale sono antiche e recenti allo stesso tempo. È lecito credere che i fattori siano sempre più di uno, annoverando sia i vincoli fisico-strutturali, la posizione rispetto ai poli di sviluppo, la debole tradizione industriale, la frammentazione istituzionale e progettuale. Quale che sia la miscela di fattori causativi, bisogna chiedersi quali destini tocchino a queste aree, dopo che si è esaurita la spinta alla delocalizzazione di scala nazionale e regionale. Ora, infatti, le imprese delle aree forti preferiscono decentrare nei paesi dell’est europeo o asiatico. La globalizzazione ha riattivato la competizione fra grandi città, che devono concentrare le proprie risorse in poderosi progetti di sviluppo interni (fiere, passanti, reti telematiche…). La stessa cosa pare avvenga per i distretti industriali, chiamati più che a espandersi nei rispettivi retroterra a razionalizzare i propri specifici vantaggi competitivi (creatività, design, marketing, coordinamento…). Risulta quindi improbabile pensare a benefici derivanti da trasferimenti e redistribuzioni delle aree forti.
Per le aree periferiche si è insistito molto sul turismo rurale, una miscela di salubrità dei prodotti, accoglienza familiare, recupero delle tradizioni locali. Gli sforzi delle amministrazioni pubbliche, dei parchi naturali e dei gruppi spontanei hanno sortito progetti di buona fattura, capaci di far vedere quanto ricca e bella sia l’Italia dei piccoli centri. Tali sforzi però hanno un impatto occupazionale limitato e non tengono conto dell’emergenza servizi; sono rivolti cioè soprattutto a qualificare piccole nicchie dell’economia locale. Non che siano inutili, ma piuttosto insufficienti rispetto al gravoso compito di mantenere la popolazione in loco. Famiglie giovani con figli necessitano di redditi regolari e di servizi adeguati; in caso contrario non resta che il trasferimento nelle città o nei fondovalle. Il pendolarismo spinto degli anni passati risulta poi insostenibile per gli elevati costi economici e fisici che comporta.
A fronte di questa situazione ci si può chiedere quale economia sia possibile nelle aree periferiche del nord Italia e se questa possa essere sostenibile. Anni di studio sullo sviluppo locale ci hanno insegnato che non esiste una ricetta universale e che i percorsi sono vari e a volte imprevedibili. Tuttavia, due vincoli appaiono imprescindibili: uno, bisogna mantenere insediamenti con una popolazione sufficientemente numerosa ed equilibrata per fasce di età; due, bisogna battere strade che assicurino la sostenibilità ambientale delle attività economiche siano essi dei locali o di imprese esterne. In queste due condizioni trova senso il titolo del convegno: “un’economia leggera per aree fragili”.
Un’economia leggera si riferisce a varie cose: oltre alla sostenibilità ambientale, il pensiero va ai fattori immateriali dello sviluppo come la conoscenza e il capitale umano. I diversi tipi di conoscenza e le motivazioni ad agire sono variabili cruciali nei processi di sviluppo locale. Dal canto suo, il capitale sociale è probabilmente diradato e in crisi, dato che le aree periferiche lamentano un forte sbilanciamento verso le classi di età anziane e una crescente segregazione delle residenze permanenti. Presenze temporanee di turisti ed ex-residenti devono essere collocate nella giusta luce: si tratta di persone che hanno costruito la propria famiglia e professione altrove; raramente sono disposte a impiantarsi stabilmente in queste aree. Eppure sono una risorsa da tenere in considerazione. In questo senso anche gli immigrati da altri paesi possono essere un prezioso fattore di rivitalizzazione.
Su questi temi la riflessione può avviarsi nel seguente modo:
-c’è bisogno di capire meglio i contorni della marginalità territoriale nel nord-Italia (dimensioni, consistenza, variabilità delle forme)
-bisogna disegnare degli scenari di sviluppo per queste aree, tenendo conto del doppio vincolo sopra espresso: popolazione minima vitale e sostenibilità delle imprese
-si tratta, inoltre, di raccogliere esperienze esemplari, casi di intraprendenza locale che abbiano coinvolto giovani, famiglie e istituzioni ossia quelle entità che manifestano i maggiori segni di crisi.
casi di sviluppo locale sostenibile provenienti dalle aree deboli del nord Italia
modera: Alessandro Arrighetti, Università di Parma
– Autosufficienza energetica: una meta irraggiungibile? – il bilancio energetico del mandamento di Copparo (Ferrara);
Giorgio Polesinanti, Raffaele Jacoel, Francesco Silvestri
– Un circuito solidale dell’economia rurale – la coop. Valli Unite nelle valli Curone e Borbera (Appennino alessandrino),
Ottavio Rube, Giovanni Carrosio
– Filiera corta, rete larga – Natural Valley: un caso di produzione agricolo-alimentare nella collina e montagna piacentina,
Alberto Borghi
– Qualità della vita in aree marginali – il piano dei servizi intercomunali promosso dalla Provincia di Cremona,
Agostino Alloni, Marcello Magoni
– Biblioteche e cultura in rete – la partnership tra Comunità montana di Valle Camonica e il consorzio di cooperative sociali Sol.Co. Camunia (Brescia),
Guido Mensi
– Turismo diffuso, impatto limitato – il caso dell’albergo diffuso nei piccoli comuni della Carnia (Udine),
Claudio Cescutti, Marialuisa Cimiotti
ore 17.00
Conclusioni: progetti, servizi e investimenti per le aree fragili
ore 17.30
Referenti
Dario Brollo, Segretario Area Nord Est di Banca Etica (brollo.fondazione@bancaetica.org)
Alberto Hoch, Segretario Area Nord Ovest di Banca Etica (hoch.fondazione@bancaetica.org)
Giorgio Osti, coordinatore soci di Banca Etica della provincia di Rovigo (giorgio.osti1@tin.it)
Sede del convegno: Sala Consiliare della Provincia di Rovigo, via Ricchieri, 10
Rovigo si presta bene a rappresentare un’area posta alla periferia di zone molto dinamiche come l’Emilia e il Veneto centrale. Nonostante ciò ha una posizione geografica baricentrica, ben collegata alle linee ferroviarie e stradali.