14 marzo 2009
Da diversi anni abbiamo intrapreso un’opera di ricerca sulle aree fragili del nostro paese con l’intento di individuare le loro traiettorie e, possibilmente, volgerle in positivo grazie agli strumenti della finanza etica. Quando parliamo di aree fragili pensiamo a tre situazioni: le zone particolarmente esposte a rischi ambientali siano essi di origine naturale (esondazione di un fiume) o artificiale (incidente in un impianto chimico); aree fragili sono anche quelle che a causa della bassa densità abitativa ed economica stanno perdendo i propri servizi e le persone più giovani; infine vi sono le classiche periferie urbane prive di servizi o i centri storici degradati. Le prime sono lontane dal cuore pulsante delle città, i secondi fin troppo vicini.
In tutte le situazioni, risulta evidente che non si tratta solo di carenze di servizi secondo uno standard base; non si tratta solo di concentrazione di residenti con redditi e patrimoni più bassi. Vi è un importante fattore sociale che riguarda la qualità del vivere collettivo. La gloriosa Scuola di Chicago quando analizzava i quartieri delle città parlava di disorganizzazione, intendendo con ciò l’assenza di un “ordine morale” fra gli abitanti. Ordine morale suona ormai come un termine datato, ma il senso di fondo rimane: siamo o meno di fronte ad un quartiere che manifesta una certa socialità, che sa organizzarsi per particolari eventi, che è capace anche di mobilitarsi per chiedere il rispetto dei propri diritti? Nel grado di organizzazione vi è quindi sia una solidarietà locale sia anche una dimensione politica intesa come rivendicazione di servizi funzionanti, spazi comuni, abitazioni decenti. Sapersi organizzare significa catturare fondi, farsi conoscere all’esterno, portare nel quartiere o nel paese iniziative originali.
Abitare ingloba le dimensioni principali del vivere: quella privata degli affetti e del relax, quella lavorativa, seppur indirettamente (spostamenti casa-lavoro) e quella appunto della socialità come sopra specificato: vivere accanto ad altri in maniera significativa con gesti reciproci di cura e con adeguati spazi pubblici, nei quali manifestare le proprie esigenze. Questa situazione si potrebbe chiamare anche comunità, se non fosse che questo termine evoca (ingiustamente) significati negativi, come il controllo sociale, la maldicenza, la mortificazione della soggettività individuale. Quale che sia il nome che vogliamo dare all’abitare, esso va ben al di là del risiedere, dello stare fisicamente alcune ore della giornata in condizioni di prossimità.
Vediamo allora cosa minaccia l’abitare:
-condizioni ambientali rischiose, considerando anche le opere umane
-la lontananza dei posti di lavoro che impone lunghi spostamenti o l’accettazione di lavori in loco precari
-una carente dotazione di servizi di base, includendo in questi anche i luoghi della socialità
-un debole spirito comunitario, un senso di estraneità fra abitanti, le prevaricazioni di minoranze criminali
Riguardo al primo punto abbiamo alcuni dati che permettono di fare una mappatura impressionante dell’Italia: si veda la carta del rischio sismico, di quello idrogeologico e dei siti industriali pericolosi. Si può aggiungere la mappa delle città vivibili redatta annualmente da Legambiente. Riguardo al disagio derivante dagli spostamenti per lavoro abbiamo raccolto molte informazioni nel convegno dello scorso anno sulla mobilità leggera in aree fragili. Sappiamo che in testa ai tempi di percorrenza vi sono i residenti nelle aree metropolitane e un’esigua minoranza di abitanti delle aree remote. I primi sono tanti ma godono anche di maggiori servizi di trasporto, i secondi sono molto pochi anche rispetto alla popolazione dei propri paesi, ma compiono lunghi tragitti per recarsi al lavoro. Fra le minoranze ad alta mobilità, bisogna includere sicuramente molti migranti.
Riguardo alla dotazione di servizi abbiamo dati riferiti a singole aree, alle periferie delle grandi città, a tutta l’Italia. Raramente abbiamo dati con un livello di disaggregazione territoriale tale da cogliere se esista una discriminazione verso le aree minori. Ad esempio, la ricerca di Legambiente sul disagio abitativo nei piccoli comuni mette in evidenza tre tipi di disagio: quello economico-occupazionale di gran parte delle aree interne del sud; quello in larga misura demografico (pop. anziana) e culturale (istruzione bassa) delle aree montane e collinari del centro-nord e quello che assomma i caratteri negativi delle prime due aree, anche se con valori meno estremi e che riguarda alcune aree di pianura del nord (già a suo tempo localizzate nelle nostre ricerche, Osti 2004-05) e piccoli gruppi di comuni distribuiti a macchia di leopardo in tutta Italia (figura in alto).
Proprio questo ultimo tipo di disagio insediativo merita alcuni commenti. Intanto è da sottolineare la sua presenza sia in pianura che in montagna, sia al nord che al sud. E’ probabile che la sua diffusione così dispersa lungo tutto lo stivale impedisca di coglierne la reale fisionomia, non facilmente riconducibile ai soliti clichè basati sulla disoccupazione (sud) e sull’invecchiamento (nord). Un nodo cruciale di questo terzo tipo è proprio il fatto che si assommano disagi economici, carenze nei servizi e destrutturazione demografica.
A scanso di equivoci è bene precisare che l’insieme dei casi considerati nella citata ricerca in disagio insediativo è composto da “2.830 comuni – pari al 35% del totale – con una superficie di 100 mila Kmq., corrispondente al 33,4% della superficie nazionale, nella quale risiede soltanto l’8,7% della popolazione” (Legambiente-Confcommercio, 2000, p. 6). Se guardiamo però alla distribuzione territoriale per regione torna il classico dualismo nord-sud. Infatti, I comuni con i tre tipi di disagio abitativo raccolgono solo l’1,3% della popolazione del Veneto e il 42% della popolazione della Calabria. La regione del nord Italia con la più ampia quota di popolazione in condizioni residenziali difficili è il Piemonte con il 5,5%. Poco più sotto la Liguria (5,2%). I curatori della ricerca insistono sul fatto che si tratta di indici ‘tarati’ per misurare il disagio delle aree rurali e non delle periferie urbane.
Comunque sia, una simile distribuzione del disagio crea un problema per le politiche di sviluppo: dobbiamo tralasciare queste situazioni geografiche per concentrarci sulle grandi aree urbane dove il malessere si manifesta in forme più forti e riguarda fasce ben più ampie di popolazione? Dobbiamo pensare soprattutto al sud Italia dove si assommano problemi antichi e nuovi e dove il malessere sembra più difficile da combattere? Oppure dobbiamo pur sempre considerare che un tipico disagio da aree minori, rurali, montane, a bassa densità, presenta dei tratti specifici in tutto il territorio nazionale e come tale va trattato?
La linea di ricerca sin qui tracciata ci spinge verso la terza ipotesi. Esiste un tipo particolare di marginalità rurale che riguarda una minoranza (alcuni milioni di persone secondo l’indagine) della popolazione italiana, che rischia di essere trascurata nelle politiche per il fatto che a) è poco conosciuta, b) le politiche di sviluppo locale puntano tutto sulla promozione delle attività economiche tralasciando gli aspetti più spiccatamente residenziali. Una buona esemplificazione viene dalle ricerche epidemiologiche. Giuseppe Costa (2008) mostra che la vita media è leggermente più lunga in città rispetto alla campagna-montagna piemontese. E ciò pare in parte da attribuirsi alla diversa dotazione di servizi sanitari, che induce una diversa propensione a monitorare il proprio stato di salute. Egli precisa anche che le differenze fra classi sociali sono maggiori di quelle fra aree territoriali, come a dire che a Torino si vive leggermente più a lungo che nelle valli, ma dentro la città le differenze fra gruppi sociali sono maggiori. Ritorna dunque il dilemma precedente: nelle aree urbane il disagio sociale si manifesta in maniera più acuta. Tuttavia, esiste anche un problema ‘rurale’, nelle pur ricche regioni del nord Italia.
Sebbene sia più difficile avere informazioni sistematiche sugli aspetti relazionali, possiamo immaginare che vi sia una crisi della socialità nelle aree a bassa densità abitativa che si manifesta come una vera e propria solitudine o bowling alone come richiama il libro di un noto studioso di questi fenomeni (Robert Putnam). Le aree degradate delle periferie urbane possono avere tanti problemi ma non certo quello della rarefazione della popolazione. Evidentemente si può essere soli anche in mezzo alla folla (David Riesman, 1950), ma per ragioni diverse da quelle pensabili in zone rurali semidisabitate. Per altro, sono diverse anche le prospettive: mentre nelle aree urbane vi possono essere rapidi cambiamenti dovuti a processi di gentrification (riqualificazioni con nuovi abitanti più ricchi) o alla sostituzione di popolazione (vedasi il fenomeno migratorio), nelle aree rurali marginali i processi sono più lenti e sembrano ancora inclinati verso un ulteriore spopolamento. In quelle aree anche l’arrivo di nuovi immigrati avviene più lentamente (e rischia di creare nuovi ghetti rurali!).
Insomma, esiste una peculiarità delle aree fragili a bassa densità abitativa che richiede un occhio attento, una indagine specifica, una considerazione nuova che possa approdare ad una conoscenza più sistematica di quanto accade. Un banco di prova cruciale sembrano essere i servizi sia quelli commerciali che quelli sociali. Indagare su questi può far capire molte cose e forse anche individuare qualche risposta positiva.
Vi è infatti una parte propositiva della ricerca: evidenziare esperienze nelle quali si è cercato di dare risposte positive alla marginalità territoriale; esse possono essere catalogate secondo i seguenti criteri:
– originalità
– durata
– ampiezza del coinvolgimento
– elementi di sussidiarietà
Su questi due aspetti – disagio abitativo delle aree rurali e risposte innovative al problema – si può imbastire il programma del convegno 2009.
Riferimenti bibliografici sul tema dell’abitare in contesti periferici
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