15 marzo 2008
La mobilità fisica delle persone in Italia ha un forte impatto sull’ambiente. Nel 2005 vi erano quasi 35 milioni di autovetture, pari a circa 60 mezzi ogni 100 abitanti (media europea 50%). A queste bisogna aggiungere circa 8 milioni di veicoli per il trasporto merci e almeno 7 milioni di ciclomotori (Ambiente Italia 2007, p. 230).
Il numero di chilometri percorsi dal singolo abitante con un mezzo motorizzato è di molto superiore alla media europea (circa 15.000 km a testa), mentre è leggermente inferiore l’intensità d’uso della singola vettura (ciò denota un utilizzo non ottimale del parco auto). Dal canto suo il trasporto con mezzi collettivi (impropriamente detto “pubblico”) non supera il 16% di tutti i viaggi delle persone. Il trasporto delle merci su strada è stato nel 2005 pari a 188.768 milioni di tonnellate per km. Esso rappresenta il 75% di tutta la movimentazione di merci. Gli altri due vettori arrivano al 15% (trasporto marittimo) e al 10% (ferrovia).
In tutto i milioni di tonnellate movimentati arrivano a 250.000, una cifra sostanzialmente uguale a quella del 2000. Un grosso incremento si era avuto nell’ultimo decennio del ‘900. Ora, non è ben chiaro se vi sarà una ripresa del tasso di crescita oppure si manterranno gli attuali volumi (Rapporto ISSI 2007, p. 209). Sappiamo però che trasporto di merci su navi e su treni è rimasto sostanzialmente stabile, mentre è in crescita quello per via aerea.
Quest’ultimo mezzo sta crescendo anche per il trasporto di persone. In Italia le emissioni di CO2 (più altri gas simili=equivalenti) dei trasporti fatto 100 il livello nel 1990 sono arrivate a 128 nel 2004. In tale anno il settore dei trasporti era responsabile del 23% delle emissioni di CO2 equivalente, un livello secondo solo a quello della produzione di energia. Invece, in termini di tendenza esso è il primo fra i settori produttivi; è cioè quello che è cresciuto di più.
Con questi dati è difficile aspettarsi una “dematerializzazione” (ottenere lo stesso risultato con minore apporto di energia e materia) del settore. Non si riuscirà a trasportare lo stesso numero di persone e le stesse quantità di merci con un minor uso di risorse e minori emissioni.
E’ lecito attendersi quindi una crescita in termini assoluti e relativi dell’impatto dei trasporti sull’ambiente. Nelle aree periferiche, intendendo con queste le zone di montagna, le aree a bassa densità abitativa e quelle non toccate da importanti assi di comunicazione, i trasporti sono un problema in più. Sono infatti poco servite dai mezzi pubblici, costringendo ad un maggiore uso dell’auto privata; sono lontane dai servizi e dai luoghi di lavoro, costringendo a lunghi e faticosi trasferimenti; hanno una densità di popolazione così bassa da rendere poco economici e praticabili servizi di trasporto autogestiti (ad esempio il car pooling o più banalmente un servizio di taxi).
La contingenza storica è sfavorevole alle aree periferiche per varie ragioni: i servizi pubblici – in particolare quelli dei trasporti – sono in gravi difficoltà economiche e cercano di tagliare le corse meno frequentate. La privatizzazione poi non aiuta in questo senso. Decenni di emigrazione hanno reso tali aree abitate prevalentemente da anziani, le cui possibilità di possedere e guidare un mezzo privato tendono inevitabilmente a ridursi.
Allo stesso tempo, le poche chance di sviluppo o di tenuta delle economie periferiche sembra riposta in una maggiore integrazione delle persone e dei prodotti con le aree forti; da ciò deriva la necessità di incrementare i trasporti. Più turisti da portare in zona, più residenti locali che possano pendolare, più merci da far girare da un luogo di produzione ad un altro alla ricerca dei ‘vantaggi comparati’.
Il problema dei trasporti raggiunge elevati picchi di visibilità negli ingorghi urbani e nelle code in autostrada. Ma esiste un problema più generale e meno visibile che riguarda la mobilità delle aree periferiche. Proprio in forza di quanto sostenuto in precedenza (crescita dell’integrazione fra sistemi), i problemi delle aree periferiche si ripercuotono sulle aree centrali. Molti residenti nelle lontane periferie finiscono per intasare gli imbocchi delle città e i raccordi autostradali oppure devono rinunciare alla mobilità, riducendo così le proprie opportunità di accesso ai servizi e alle professioni. Insomma, il problema degli spostamenti nelle aree fragili è meno visibile ma genera riflessi negativi su tutto il sistema.
La cartina del nord Italia sopra riportata mostra che il pendolarismo ‘forte’ è diffuso maggiormente nelle aree metropolitane, come era lecito attendersi, in molte aree montane di confine e in qualche area di pianura. Dunque, zone rurali, generalmente a industrializzazione e urbanizzazione diffusa (il lavoro sotto casa), possono avere gravi problemi di spostamento. Anche i distretti industriali, spesso localizzati fuori dei centri urbani, hanno una buona integrazione produttiva ma un traffico veicolare spaventosamente caotico. Vale la pena quindi affrontare il tema mobilità per una volta guardandolo dal punto di vista delle aree non urbane.
Con tale prospettiva forse potranno emergere analisi innovative e soluzioni inedite. A volte un cambio di prospettiva permette di trovare espedienti semplici a problemi molto gravi.
Chissà che casi delle aree periferiche non possano illuminare ingarbugliate situazioni presenti nelle metropoli o in aree industriali particolarmente intasate. Per altro, il problema della mobilità nelle aree periferiche è tutt’altro che semplice perché implica almeno tre piani di intervento: il piano della tutela dei diritti: ogni cittadino ha diritto di fruire di un servizio minimo di trasporto collettivo, il piano delle politiche: serve una redistribuzione dei costi del trasporto fra aree; non è possibile infatti stabilire tariffe solo a partire dal costo della singola corsa, il piano della cultura: è urgente ridimensionare il mito dell’auto privata – pur utilissima nelle aree periferiche – e sondare strumenti cooperativi e partecipativi.
Anche le soluzioni si pongono su più piani; possiamo immaginare tre linee di azione per la mobilità nelle aree periferiche: far muovere meno le persone portando servizi e lavoro più vicino a casa e collegandole con servizi telematici (strategia della riduzione). farle muovere di più con mezzi collettivi creando dei servizi di trasporto a chiamata o auto-organizzati che sviluppino economie di scala (strategia dell’innovazione di processo o logistica) farle muovere con mezzi privati più adatti alle specificità dei luoghi sostenendo la ricerca di auto-mezzi più efficienti, più flessibili, meno costosi, più robusti ….. (strategia dell’innovazione di prodotto).
Servono dunque soluzioni pratiche, da approntare con una precisa valutazione dei costi, dei mezzi tecnici a disposizione, delle formule gestionali più opportune. Sarebbe però riduttivo pensare che le soluzioni vengano solo da ricette ingegneristiche.
Non sembri retorico a questo punto il richiamo alla partecipazione. Pensare che i residenti nelle aree periferiche siano solo utenti o clienti dei servizi di trasporto, è illusorio. Una certa condivisione del servizio è indispensabile; serve anche un minimo di solidarietà da parte di coloro che vivono in aree dove i trasporti collettivi hanno numeri tali da renderli più convenienti.
Su tutta la questione pesa la questione ambientale. Sarebbe piuttosto facile pensare ad una massiccia integrazione delle aree periferiche grazie ad un forte sviluppo delle attuali modalità di trasporto.
Ma ciò appare insostenibile per le ragioni addotte inizialmente. Dobbiamo pensare di alleggerire i trasporti, anche nelle aree periferiche; dobbiamo, allo stesso tempo, renderli più accessibili alle fasce deboli e dobbiamo, infine, ridurre una quota della mobilità fisica attraverso collegamenti virtuali o servizi in loco. Una bella sfida che il convegno vuole raccogliere seguendo un’impostazione già collaudata (economia leggera e energia locale): una lettura del fenomeno e dei problemi, in una prima parte, la presentazione di casi virtuosi, nella seconda.